Bavaglio all’informazione: non solo Assange

Nel 2017, durante l’amministrazione Trump, la Cia voleva rapire e forse assassinare Julian Assange. La notizia riportata qualche giorno fa da Yahoo! News è ricca di particolari e a parlare sono stati diversi ex funzionari dell’intelligence Usa. Il fondatore di WikiLeaks era all’epoca chiuso nell’ambasciata ecuadoriana di Londra e per gli statunitensi costituiva una minaccia, soprattutto se fosse fuggito in Russia. In particolare – secondo l’inchiesta – a essere ostile ad Assange era Mike Pompeo, allora capo della Cia. Assange era una potenziale minaccia, ma i piani che lo riguardavano erano anche una forma di vendetta, dato che WikiLeaks aveva sottratto alla Cia e diffuso una grande quantità di dati segreti.

Vedremo se ci saranno sviluppi dopo questa inchiesta, Trump ha smentito quanto scritto da Yahoo! News, ma non è una vicenda inverosimile. L’assurda, interminabile, detenzione di Assange è un tentativo di fermare la libertà di diffondere notizie considerate importanti per i cittadini di tutto il mondo, una vendetta di Paesi potenti che si sono sentiti smascherati dalle rivelazioni di WikiLeaks.

Se la vicenda di Assange è la più eclatante e ha assunto un valore emblematico per i diritti civili e la libertà di informare, ogni giorno in tutto il mondo vi sono giornalisti minacciati, uccisi, costretti a difendere da querele temerarie da parte di chi vorrebbe tappare loro la bocca. A Seattle è sotto processo il capo dell’organizzazione neonazista Atomwaffen Division, che in tre diversi Stati americani aveva minacciato oltre a ebrei e afroamericani, anche alcuni giornalisti. Ovviamente il loro lavoro dava fastidio ai neonazisti, qualcosa che ci ricorda qualche punto in comune con vicende di casa nostra e l’ultima inchiesta di Fanpage.

Spesso i colleghi europarlamentari segnalano violazioni della libertà di informazione che riguardano giornalisti e media europei. Le ultime due sono arrivate pochi giorni fa. La prima riguarda una troupe televisiva bulgara minacciata e circondata dalla folla in Macedonia del Nord per il lavoro che stavano conducendo in quel luogo e che riguardava la minoranza bulgara invi residente. La seconda ci porta in Lituania, dove il giornalista e politico Algirdas Paleckis è stato accusato di spionaggio, un grande classico per tappare la bocca ai giornalisti). Secondo alcuni europarlamentari che si sono occupati da vicino della vicenda, è un caso che presenta molte irregolarità giudiziarie e mette a rischio lo stato di diritto nel Paese baltico. Perché la libertà di informare ci consegna lo stato di salute di un Paese democratico, ed è giusto mettere in discussione l’affidabilità di uno Stato membro sulla base delle limitazioni, censure e addirittura chiusure che certi governi impongono alla stampa. I casi recenti di media ungheresi e polacchi soppressi e di giornalisti condannati è davanti agli occhi di tutti. La condotta dei governi di Ungheria e Polonia è stata più volte stigmatizzata dal Parlamento europeo, ma anche da altri organismi come l’Onu, l’Osce e il Consiglio d’Europa. Il meccanismo della condizionalità, che lega l’erogazione dei fondi europei allo stato di diritto, è uno dei capisaldi delle istituzioni europee ed è sentito ancora di più oggi con il Recovery Fund. Limitare gli aiuti è un atto necessario. Bisogna impedire, per esempio, che i fondi europei vadano a finanziare una stampa di regime a discapito di siti online, giornali, radio e tv che lavorano seriamente, cercando notizie e facendole conoscere ai cittadini.

E in Italia? Ci sarebbero tante cose da dire, ma limitiamoci all’ultima vicenda che ha visto il sequestro preventivo e oscuramento del sito d’informazione Fanpage, un atto incostituzionale che ricorda pagine buie della storia (che qualcuno addirittura rimpiange, vedi sempre Fanpage). Un atto che comunque è uscito da un tribunale italiano, è durato 24 ore – anche troppo – ed è stato causato dalla diffusione di un video con telecamera nascosta in cui l’on. Claudio Durigon della Lega fa alcune dichiarazioni di pubblico interesse. Di libertà di stampa, anche in Italia, torneremo a parlare sicuramente e molto presto.

In questa settimana la commissione Giustizia della Camera ha discusso un decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, che il Consiglio dei ministri ha approvato nell’agosto scorso e che probabilmente la prossima settimana verrà votato. Si tratta di fatto di una legge che mette il bavaglio, limitando notevolmente la possibilità da parte dei giornalisti di lavorare, in particolare coloro che si occupano di cronaca giudiziaria. Tra i parlamentari italiani c’è chi esulta e chi si indigna. Nei sei articoli della legge in esame si dice, all’art. 3, che i magistrati potranno comunicare “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”. I giornalisti non potranno parlare con i magistrati né con funzionari di polizia giudiziaria per essere messi al corrente delle inchieste, salvo autorizzazione della procura competente. Il cittadino non potrà sapere più nulla su quanto accade nelle aule di giustizia, se ci sono personaggi della politica o il vicino di casa sotto indagine. Nessuno mette in dubbio la presunzione d’innocenza degli imputati, ma questa è un’altra storia: qui sono in gioco la libertà di stampa e il diritto di cronaca.