La “momentanea indignazione” e il caso Assange

A Washington, la strada di fronte all’ambasciata dell’Arabia Saudita è stata intitolata a Jamal Khashoggi, il giornalista saudita del “Washington Post” assassinato il 2 ottobre 2018 all’interno del consolato del suo Paese a Istanbul. Una iniziativa presa dal consiglio comunale della città, dopo l’annuncio di qualche giorno prima di una visita ufficiale a luglio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Arabia Saudita e altri Paesi.
“La nuova strada servirà da costante promemoria, in modo che il ricordo di Jamal Khashoggi non possa mai essere spento”, ha detto il presidente del consiglio comunale Phil Mendelson. A Riad, tra un mese Biden incontrerà il principe ereditario Mohammed bin Salman, accusato dall’intelligence Usa di essere il mandante dell’omicidio di Khashoggi.
Tawakkul Karman, attivista yemenita Premio Nobel per la Pace nel 2011, durante la cerimonia ha detto che la visita del presidente degli Stati Uniti a Riad significa “che Biden ha abbandonato il suo impegno a difendere i diritti umani nel mondo”.
Khasshoggi ha avuto il coraggio di denunciare il regime dittatoriale di Mohammed bin Salman, ne ha fatto conoscere gli abusi nel mondo, è stato torturato e ucciso all’interno di una sede diplomatica. Un fatto gravissimo. È stata una evidente esibizione di arroganza tirannica, incurante delle conseguenze, una lezione per tutti gli altri oppositori. Ed era chiaro da subito che conseguenze serie per il regime di Riad non ci sarebbero state. Come non ce ne sono per la guerra in Yemen, che si protrae dal 2014, con un pesante coinvolgimento dei Paesi occidentali, oltre che dell’Arabia Saudita, e una stima di 377mila morti diretti e indiretti, molti dei quali civili. Ma il business procede “as usual”.

Nel suo viaggio di metà luglio, Biden sarà in visita anche in Israele, un altro Paese che da anni viola ripetutamente le risoluzioni dell’Onu – finora ne ha accumulate una settantina –, in particolare quelle riguardanti lo Stato palestinese, se così vogliamo chiamarlo. I palestinesi vivono rinchiusi nella Striscia di Gaza o abitano in Cisgiordania che, con l’inarrestabile installazione di nuove colonie israeliane, è divenuta ormai quasi una “espressione geografica”. Il recente omicidio della giornalista palestino-statunitense Shireen Abu Akleh da parte dell’esercito israeliano è solo l’ultimo atto di una lunga serie di crimini. Le scene del funerale di Shireen a Gerusalemme – con l’insensato attacco della polizia israeliana alla bara della giornalista, che cade quasi per terra – hanno fatto il giro del mondo. Eppure, non è successo niente. Probabilmente, come sempre, non succederà niente. Forse Biden, durante la visita in Israele, accennerà all’uccisione della sua connazionale, ma poi “business as usual”.

Gli Stati dittatoriali creano vittime, noi le ricordiamo ma, anche quando la verità viene a galla, non ci sono contromisure adeguate e gli affari prendono il sopravvento sulla ‘momentanea indignazione’. La storia di Giulio Regeni non è diversa: torture e omicidio di Stato, quello egiziano. Degli assassini abbiamo anche le foto, ma la collaborazione della autorità egiziane è minima. I genitori di Regeni, giustamente, si sentono presi in giro. Ma anche questa condotta dell’Egitto non ostacola gli affari. Quattro giorni fa, l’Unione Europea ha siglato un memorandum d’intesa con Egitto e Israele per la fornitura di gas naturale, per sopperire a quello russo. Che il regime di Putin non fosse democratico lo sapevamo anche prima della guerra in Ucraina. Eppure, anche con Putin si facevano affari. E chi lo ha sostituito non rispetta i diritti umani, le risoluzioni dell’Onu e fa le sue guerre come fa la Russia. Un capolavoro di ipocrisia.

Ma torniamo agli Stati Uniti, il capofila del ‘mondo libero’. Parliamo del rispetto dei diritti umani nei Paesi occidentali, parliamo del caso di Julian Assange, di cui l’altroieri la Gran Bretagna ha autorizzato l’estradizione negli Usa. Vittima di una tortura lenta e prolungata, senza un capo d’imputazione, da dieci anni Assange vive imprigionato, prima nell’ambasciata ecuadoriana di Londra e poi in un carcere di massima sicurezza inglese. Assange è un attivista e giornalista. Ha denunciato crimini di guerra che sono rimasti sostanzialmente impuniti. Lui invece no, doveva essere condannato per aver fatto conoscere la verità. Gli Stati Uniti lo hanno incriminato per spionaggio, calcolando per il fondatore di WikiLeaks una pena di 175 anni di carcere. Assange non è una spia, è un giornalista. Assange è come Khashoggi. Hanno fatto le stesse cose. Solo che uno è stato torturato e ucciso in un consolato, l’altro è ancora vivo, lo stanno privando della libertà da dieci anni, lo stanno uccidendo molto lentamente. Questione di metodi. Ma siamo ancora in tempo per liberare Julian Assange e dare un lieto fine a questa vicenda oscena e indegna.